All the Madmen

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Maggio 13, 2014 di carlovanni

Nel mio approvvigionamento che sta ai libri come quello degli elefanti sta al fieno, ogni tanto qualche pezzo veramente di spicco si trova. Questo è uno dei saggi sulla musica che mi sono goduto di più in assoluto: All the Madmen, di Clinton Heylin, già autore di un bellissimo studio (da noi mai pubblicato) sulla realtà del mondo del bootleg, stavolta traccia un quadro della musica inglese tra i ’60 e gli ’80 a partire da un punto di vista sempre sfiorato da tutti ma mai approfondito, vale a dire quello dei problemi mentali degli artisti.

E lo fa prendendo ad esempio solo alcuni (eccellenti) testimonials, dimenticandone altri forse ancor più significativi: i suoi argomenti sono Ray Davies dei Kinks, Pete Townshend degli Who, Nick Drake, David Bowie, Peter Green e Syd Barrett. Tralasciando, voi capite, nomi abbastanza interessanti al proposito, quali Rory Gallagher, Keith Richards, Ozzy Osbourne, per non dire di tantissimi altri i cui percorsi per forza di cose si intrecciano di quelli presi in oggetto perchè le loro strade si sono incrociate (nell’incredibile fucina rappresentata musicalmente dagli UK in quegli anni) o perchè, semplicemente, è impossibile prescindere da essi parlando di musica. Ad esempio, si parlerà solo ai margini di Hendrix, o di Lennon, e così via, che pure avrebbero avuto pieno titolo per partecipare della festa. Heylin_madmen

Ma le decisioni dell’autore sono, essendo autoriali, incontestabili; e diciamo subito che va poi bene così, perchè una dissertazione così dotta, onesta ed esaustiva voi non l’avete letta mai. Forse, qualcosa che un po’ ci si avvicina sono le pagine di Lester Bangs nelle sue isteriche memorie ed articoli vari, oppure quelle, più british, più sofferte e molto più incisive e immersive, di Nick Kent (valga per tutti il bellissimo Apathy for the Devil); ma Heylin, pur essendosi perso tutto il divertimento di quegli anni (è nato nel 1960 e magari non ha fatto in tempo a drogarsi come tutti gli altri) ha dalla sua una grandissima capacità di analisi, onestà intellettuale, un mare di dati da citare e una bella e precisa penna.

Gli alcolisti, gli psicotici, gli impasticcati; gli schizofrenici, i paranoici, gli eroinomani, i dipendenti dal plauso della folla, dal sesso, dall’autoesaltazione: tutto torna. Heylin mette a nudo, finalmente, quello che veramente si cela dietro ad una intramontabile mitologia del rock, del folk, della psichedelia attraverso le tante debolezze dei protagonisti ed interpreti, smascherando le dichiarazioni puramente promozionali, le falsità e le leggende con un garbo certo superiore a quello col quale ci hanno ingozzati con le stesse per tutti questi anni.

Ne esce un quadro molto, ma molto più desolante di quello al quale siete abituati, vi avviso fin da subito. Se volete continuare a credere ad una generazione di incredibili eroi della chitarra con le palle d’acciaio, che indulgevano in stravizi in quanto ribelli, ecco: lasciate perdere, andate a leggere Eva 3000, sarà meglio.

Diversamente, potete affrontare questo viaggio col rispetto che richiede e rendervi conto, tramite queste pagine difficilmente contestabili (dai documenti dell’epoca; dalle dichiarazioni dei protagonisti; da quelle dei loro amici, produttori, collaboratori) che dietro a questa smania dorata si celavano fondamentalmente tre cose:

a) voglia di emergere, di vendere, di sfondare;

b) una terribile paura di non farcela, di non essere all’altezza, di non riuscire a tollerare la fatica psicologica dell’impatto col giudizio degli altri;

c) il dispiacere, il dolore di non esserci riusciti, di non avere centrato gli obiettivi.

Volevate sognare il geniale processo creativo, il sublime rapimento, la sregolatezza dell’eroe omerico prestato alla musica? Scordatevelo. Qui c’è un mare di malessere e di inadeguatezza; ci sono storie familiari di abbandono e di rifiuto, ma anche famiglie solide ed affettuose ugualmente risultate incomunicabili.

L’ironia intraducibile di Syd Barrett? Forse non la capiva neppure lui. Non era abbastanza cattivo o abbastanza lucido da porsi in maniera critica nei confronti del suo ex gruppo in modo da farsi valere.

La geniale introspezione di Nick Drake? Non era in grado di parlare se non a monosillabi, covava pensieri di morte fin dall’adolescenza e aveva in generale la psiche di un undicenne psicotico.

L’orchestrazione mozartiana di Townshend? Caotico, fissato, maniaco, terrorizzato dal dubbio; i suoi concept album nascevano incollando brani nati a distanza di anni l’uno dall’altro, riesumati da vecchi progetti, prestati da altri artisti, rimaneggiati.

Il genio camaleontico di Bowie? Una folle gara con gli alter ego che si costruiva per trovare il coraggio di affrontare il palco, salvo poi scoprire che gli alter ego erano più forti, molto più forti, di lui.

E via di questo passo, demolendo nozioni date per Vangelo sino ad ora e certezze granitiche; gli eroi del rock sono bambini spauriti, pettegoli, invidiosi, sempre alla ricerca di conferme; si butteranno, quasi tutti, su droga e alcool non tanto per cercare qualche nuovo e diverso impeto creativo – forse, giusto in parte Barrett, Green, Lennon, Harrison, Drake – quanto per trovare un sostegno, sia in energia fisica, sia mentale, per le fatiche improbe del fare fronte alle pressanti richieste di pubblico e discografici, con l’incubo costante di non essere all’altezza della situazione, dei tempi, di se stessi.

Altro mito, molto longevo, da sfatare: la produttività che nasce dalla sregolatezza. In realtà, dalla sregolatezza nascerà un bel fico secco di niente, anzi; più che mai il blocco mentale e fisico, la tragedia dello strisciare fuori e dentro le dipendenze, l’incapacità nel comunicare e nel lavorare, la distruzione dei processi mentali che portano alle idee e alla loro elaborazione. Drake e Barrett sono un esempio eclatante di personalità già ampiamente disturbate che sotto il colpo degli acidi vanno definitivamente in pezzi, e per sempre; Green torna a mettere le mani su di una chitarra dopo decenni, finalmente uscito da mitomanie messianiche improduttive, Hendrix, più timido e fragile di quello che chiunque arrivi a credere, ci resta in mezzo, per non parlare di Morrison o della Joplin, ma queste sono storie americane, diverse anche se uguali.

Certo,  i capelli folti e lunghi, il fisico da cocaina, da eroina, gli occhioni grandi dei lisergici, le paranoie intrippate degl intossicati da funghi e da acidi, tutto questo ha spinto molto lontano nel culto gran parte della mia generazione; e però, chiunque abbia provato a mettere assieme due accordi o a suonare davanti ad una festa di studenti dopo una mezza bottiglia di grappa, magari questi passaggi li ha capiti già da prima. Per quanto mi riguarda, non credo sia giusto inchinarsi a totem tutto sommato di pezza, a divinare su orpelli che in fin dei conti sono e sono sempre stati nel migliore dei casi una ricerca, non si sa quanto personale, di fuga dall’ansia, nel peggiore, e molto a lungo, solamente marketing; certo è che, invece di restare delusi, se siete come me rimarrete molto contenti di queste bellissime pagine che vi restituiscono i vostri beniamini in una dimensione estremamente umana, molto più credibile e vera, e molto, molto condivisibile.

Anche le rockstar, anche i miti indistruttibili, in fondo, hanno sofferto di tutte quelle idiozie di bisogni di protagonismo che accomunano tutti i vanagloriosi scrittorucoli, cantantucoli, musicistini, artistucoli da commedia del proscenio (profumatamente pagato) che soffrono se non pubblicano a sufficienza, che stanno male se, pubblicato un libro, fatto il concertino dopo il quale hanno guadagnato due soldi o scopato un po’ più del normale, dopo la gente rivolge loro la più normali delle armi di distruzione di massa: la noia, tesi come sempre verso altri aperitivi, altri giochi di cucina, altri consigli per gli acquisti. Consoliamoci tutti: non è più cretino un imbrattacarte della periferia di Brescia rispetto all’inarrivabile Jimi Hendrix; mutatis mutandis, il selfie come la Gioconda, siamo tutti ugualmente persi in questo giochetto in cui è impossibile vincere. Siamo tutti ugualmente pazzi.

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