Sant’Ernesto Guevara, Ora Pro Nobis.

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aprile 15, 2014 di carlovanni

Ho sempre nutrito un forte sospetto, per non dire, una discreta antipatia, nei confronti degli altarini. In particolare verso quelli che contrabbandano idee pure ed inviolabili, che non stanno né in cielo, né in terra, e delle quali ogni giorno per mettere assieme il pranzo con la cena dobbiamo fare a meno.

Ma anche i Santi che a tali altarini presiedono, ecco, non è che mi facciano urlare di piacere.

Gli Eroi puri, duri, inviolabili, nella memoria così come nell’iconografia, mi si dirà servono a spronare verso un ideale, verso un Senso più alto e migliore, a porsi come obbiettivo irraggiungibile verso cui tendere.

E però; allo stesso tempo, l’Eroe ti sbatte sul muso le tue pochezze, le mancanze, le debolezze. Il fatto che tu, proprio TU, non abbia in fondo la stoffa per permetterti queste cose: non c’hai il fisico. Certo, puoi sempre permetterti di indossare la maglietta con le sue frasi, però; scrivere qualcosa di gagliardo su Facebook, inneggiare alla Rivoluzione, ma poi sai benissimo di essere uno sfigato qualunque che sogna di essere qualcuno, e di avere imparato un sacco di belle frasi a memoria per vedere se c’è caso di scoparti qualche pasionaria.

Prendiamo, ad esempio, Ernesto Guevara, un uomo tutto d’un pezzo, peccato fosse quello sbagliato. Nato in Argentina, cresciuto in Puglia (da qui il soprannome, “Cé?”, che siccome farfugliava non si capiva cosa dicesse; alcuni lo chiamavano “Céccòs?”), Ernesto alterna al senso di colpa per essere nato benestante (cosa che il padre, discretamente coglione, risolverà ben presto in una serie di imprese fallimentari e strampalate) una naturale inclinazione per mettersi in mostra mentre aiuta il prossimo, purtroppo non baciata da altrettanta capacità di fare (perlomeno, una delle due cose). Il ragazzo cova una rabbia atavica classica dei borghesi istruiti che sanno di non essere né carne né pesce e di essere esclusi per sempre dai due mondi, quello dei ricchi e quello dei poveri, che non comprenderà in realtà mai.

Tutto questo coacervo di emozioni a divorare per molti anni le storie delle avventure altrui, fino al punto di non ritorno in cui deciderà, come molti, di viverle in prima persona; prima con un bel viaggio in motocicletta, poi, dopo un altro periodo di studi convulsi, a piedi. Il problema di Ernesto Guevara, come può vedere qualunque storico lucido in pochissimi istanti, è dato da una somma di fattori esplosivi: un senso di compassione profondamente sviluppato in un solo senso, quello verso i diseredati; un coraggio che avrebbe fatto impallidire il fiore degli eroi omerici; una istruzione complessa e articolata, orientata in una unica direzione; un carisma personale elevatissimo; poche e confuse capacità personali a sostegno di tutto ciò.

Guevara è infatti più uomo di lettere che non di pratica, e lo dimostra nell’impressionante montagna di fallimenti – umani, strategici, tattici, politici, professionali – che inanellerà lungo tutto il corso, ahinoi breve, della sua vita adulta. Teso allo spasimo per curare ferite sociali delle quali capisce solo gli effetti immediati – senza peraltro capirli fino in fondo, perchè non gli è dato viverli, e senza capirne le cause, se non attraverso gli occhiali non già del pensiero marxista, ma della marxista dottrina, imbevuta di leninismo, trotzkismo, maoismo e un altro discreto mucchio di disgrazie cosmiche; lanciato verso un ideale di Rivoluzione che immagina poter scaturire dal solo senso di ingiustizia, senza bisogno di basi, di mezzi, di cultura, di istruzione, perchè tutti i popoli accorreranno al suo fianco per autodeterminarsi; spiazzato dalla realtà politica, economica, sociale, psicologica di tanti suoi protetti, alleati, amici della prima ed ultima ora con la quale fare i conti, in realtà Guevara si troverà sempre più isolato, mano a mano che diverrà chiaro a tutti che con lui si ha a che fare con un cane sciolto, irriducibile, irregolare, irraggiungibile, irrilevante.

Prendono tutti le distanze. Lui stesso, da se stesso.

E’ chiarissimo durante la missione di rivoluzione proletaria in Congo, nel quale Guevara fa le camole, più che ogni altra cosa; non gli arrivano mezzi, non gli arrivano uomini, gli si vuole bene come a un fratello ammattito, ma fin lì e basta.

« L’odio come fattore di lotta; l’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così: un popolo senza odio non può distruggere un nemico brutale. Bisogna portare la guerra fin dove il nemico la porta: nelle sue case, nei suoi luoghi di divertimento. Renderla totale. Non bisogna lasciargli un minuto di tranquillità […] farlo sentire come una belva braccata. »

Quello che arriva in Bolivia, è un Guevara che non è sicuramente più il Che. Disilluso, stanco, scoglionato, amareggiato; impreparato fisicamente, psicologicamente e tecnicamente, dà il via ad una specie di farsa sulla base di idee di una ingenuità sconcertante, e di una conoscenza del territorio e delle genti che lo popolano che un qualunque lattaio ambulante avrebbe potuto ridergli in faccia in men che non si dica. Impossibile non tracciare un ideale paragone col Christopher McCandless de “Into the Wild”.

La cosa andrà purtroppo un po’ per le lunghe, con altrettanti morti per imperizia durante le esercitazioni ed altre simili che in combattimento, ma alla fine l’epilogo, tristissimo, è scontato: il Guevara fisico muore; l’icona Che Guevara, che si è già staccata dal suo corpo ospite e vive di vita propria già da diversi anni, esplode e va a raggiungere Gesù, Gandhi, Platone e Ken il Guerriero nell’empireo dei puri e inflessibili.

Generazioni di benintenzionati d’ora in avanti compreranno libri, indosseranno magliette, marceranno cortei con scarpe Nike e zainetti Invicta ai piedi, sogneranno una rivoluzione cubana fatta di porcherie indicibili e sogneranno su bellissime fotografie riprodotte in ogni dove, sperando in cuor loro di essere un po’ migliori dei conformisti che sanno di essere in quanto già il contatto col Santo, si sa, santifica, un po’ come l’acqua San Benedetto; quanto alla Rivoluzione, resterà nell’agenda delle cose da farsi entro breve, l’importante è tirare a campare un po’ meno peggio di tanti altri e potersi confortare con qualche giocattolo in più. download

Per questo trovo molto godibile, e anzi necessaria, la lettura del bel libro di Marcelo Ferroni, “Metodo pratico di Guerriglia”; sulla base di nient’altro che dei documenti già ben noti, compresi i diari autografi dello stesso protagonista, oltre ad altro emerso solo di recente (che va a integrarsi alla perfezione col resto), Ferroni ci restituisce non solo le spoglie cinematografiche, ma la persona stessa di Guevara; la sua incongruità, le sue mancanze, le sue debolezze, i suoi fallimenti, senza calcare la mano né in un senso, né nell’altro (che avrebbe ben potuto, e anzi, ce ne sarebbe); rompe con questa tradizione di santi e parafernalia propria di ogni religione che si rispetti, qui quella cattolica, là quella comunista, e riporta a terra la carne e il sangue e il luridume.

Mettendo, finalmente, a disposizione anche delle persone normali Ernesto “Che” Guevara, libero finalmente da ‘sto cazzo di magliette e bandierine, libero di marcire in terra come tutti gli altri, e di poter essere anche di esempio, nei suoi lati positivi; che a studiarselo bene, uno oggi potrebbe dire: gli ideali erano bellissimi e alti; i metodi, e i risultati, una schifezza totale. Se mi impegno, forse posso fare anche di meglio”. E uscire dal tunnel della Rivoluzione da scrivania, che in fondo basta davvero pochissimo.

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