La tragedia all’italiana

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febbraio 13, 2014 di carlovanni

Qualche giorno fa per puro caso mi sono imbattuto in un ragionamento mio che mi ha preso alla sprovvista.

Partivo dalla constatazione che nel nostro Paese chi non sa recitare, per sbarcare il lunario, presto o tardi mette su qualcosa per il Teatro; e mi sono chiesto, che fine hanno fatto tutti quei Silvi Orlandi d’antan, tutti quei personaggi di maestrini e di sindacalistini e di borghesini disperati, tartassati, tristi come la birra svaporata, tutti quei poveri cristi che nonostante la vita li opprimesse continuavano tutti a essere patetici sì, ma onesti, perdio, senza colpa a parte quella della loro debolezza costituzionale, della loro mancanza di un vero potere economico, ma con una forza intellettuale e morale da leoni? Gente che al massimo tradiva il coniuge, ma poi si ravvedeva e faceva quadrato di fronte ai valori?

Ed è stato allora che mi si è accesa la lampadina.

Come è morta la commedia all’italiana? E’ stata la mancanza di Neorealismo nel motore, che pian piano si è grippato? E’ stata la fine del boom demografico? Era venuto meno il retroterra culturale acido dei Moravia, Flaiano, Pasolini? Non è sopravvissuta alla morte dei suoi autori e interpreti, Age, Scarpelli, Monicelli, Risi, Comencini, Germi, Scola, Tognazzi, Celi, Gassman, Manfredi, Sordi?

Tutto questo, va bene; ma confrontando i tempi, i conti non tornano. C’era tanto di cui sparlare anche negli anni ’80, i grandi interpreti erano ancora vivi, le penne, le macchine da presa, pure; ma il cinema italiano aveva già perso quasi tutto il suo smalto e si avviava ad una discesa sempre più rapida, fracassona, imputtanita, vanzineggiante, neriparenteggiante, cecchigoreggiante. Una caricatura. Penso ad esempio a “Il Tassinaro”; soggetto e sceneggiatura, Sordi, Age e Scarpelli, interprete Sordi: vuoto, stupido, banale, noioso, già sentito e visto mille volte, spesso anche paraculo, lecchino. Di se stesso e del sistema in cui prosperava il cinema italiano da quei tempi in avanti.

No.

E’ venuto meno un altro, cruciale punto.

Si è smarrito il pubblico.

O meglio, si è smarrita, nel pubblico, una particolare capacità: quella di incassare la critica, la bastonatura, la tirata d’orecchi.

Da un certo punto in avanti, soprattutto si avverte un cambio di passo.

Dopo di quella linea, i protagonisti dei film sono persone comuni e non comuni, ma sempre ben distintamente cinematografiche; caricaturali, a tinte ben forti, in modo che si capisca che è tutta una finzione. Che immedesimarsi sia per molti versi ostico, se non impossibile. In ogni caso, i protagonisti sono un po’ cialtroni, un po’ sfigati, deboli, perdenti, ma fondamentalmente: buoni, positivi. In sintesi: hanno ragione. Sono pellicole di falsa denuncia, consolatorie, con un po’ di tette e di culi e tanta tanta comicità basata sullo scopiazzare se stessi all’infinito, nello scivolare su bucce di banana e vagine di modellucce usa e getta (salvo poi dare loro in mano l’intera cinematografia italiana, stile Cecchi Gori con la Rusic), nella scimmiottature di tipi e tipe con accenti e dialetti bolliti e stracotti.

Prima di quella linea, i protagonisti erano sì cialtroni, sfigati, deboli, perdenti. Ma una cosa, soprattutto: erano cattivi. Erano degli stronzi. E a te, spettatore, non riusciva proprio di immedesimarti nella crudeltà di Tognazzi, nell’enorme paraculaggine di Gassman, nella terribile tenebra di Manfredi o nella vigliaccheria ignorante di Sordi; non te la sentivi, ti cacavi sotto, ti perdevi prima.

E però, capivi che quello eri tu; oscuramente, li vedevi lì, alla berlina, tutti i tuoi viziacci porchi, non a caso rielaborati spesso alla maniera di Petrolini, che la parodia, la satira fintamente leggera, era il montante al fegato che arrivava subdolo e faceva male, e restava lì.

Poi, con l’evoluzione della specie, lo spettatore dimostrò di non gradire la critica. Basta, bacchettature. Basta critiche, basta lezioni. Mettete in scena i vizi degli altri, dai quali noi si possa sempre lavarci le mani; non è colpa nostra, guarda che schifo che c’è in giro, gli altri. O tempora, o mores.

Poi, di lì, il resto è storia, e oggi siamo liberi di prestare il nostro biglietto e le nostre tasse ad un cinema che ci mostra solamente, esattamente, esclusivamente quello che vogliamo vedere che non ci causi fastidi; lavori fatti su commissione che ci facciano vedere quanto è brutto il mondo degli immigrati o del tradimento, o ci faccia ridere con macchiette gagliarde di vacanzieri fuori tempo e misura, qualche tetta, qualche culo, qualche bel giovine messo al posto giusto, e non c’è più bisogno di recitazione, se la colonna sonora addirittura riecheggia il titolo – rigorosamente nostalgico – o viceversa, e fa capolino qualche scrittore di quelli moderni, che scrivono bello difficile e lacrimoso, magari per i giovani. Magari con qualche gatto qua e là.

Tutto, pur di non ricordarci quanto siamo stronzi.

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