Carlo Vanni Vs. l’Ingranaggio e la psittacosi di Banderas.
5settembre 11, 2012 di carlovanni
Non ti svegli perché hai finito di dormire, ma per la lama di luce che ti si infila nell’occhio, il sinistro, se non volti la testa sull’altro lato – quello sul quale sei scomodo.
E dopo poco, la consapevolezza: sono le sei e quasi venti, e tra trenta minuti, se vuoi timbrare in tempo utile, devi essere da tua madre a portare il bambino.
Perciò con gli occhi chiusi affetti sbrigativamente qualche rimasuglio di pancetta e non sai come riesci a centrare il padellino (antiaderente, ceramico) con un uovo, e tutto rischia la carbonizzazione mentre la tazza d’acqua nel microonde raggiunge la temperatura sufficiente per prepararti un succedaneo di thé (bustina Lipton pucciata al volo, affetta un limone, sciacqua coltello, riponi nel ceppo, estrai bustina, dolcifica – mmmhhh – mhhhhh, alla mattina ti dà una carica per affrontare la gggiornata!) e ti concentri non già su queste sostanze aliene nel piatto, che lascerai sporco nel lavello fino a stasera, ma su alcune righe del romanzo di Kellerman che provi a decifrare nell’attesa che il cervello ristabilisca le connessioni.
E nel frattempo il bambino chiede di guardare i cartoni animati ed ha ancora la colazione tutta intera davanti, e tu sai che finirà con lui che si ingozza, tu che scappi in bagno ti vesti litighi spegni la televisione mettiti la giacchetta sali legati scendi prendi lo zainetto saluto a papà, riapri il libro di Kellerman espleti lavi i denti scarti camicia metti camicia calzino bucato maledetto cane.
E ti incazzi perché ti incazzi col bambino mentre l’unica cosa al mondo che vorresti fare sarebbe salutarlo con un sorriso e un abbraccio, e ti rimetti in strada sgommando cercando parcheggi non a riga blu, perché non puoi lasciarci lo stipendio nei parcheggi che ti servono per andare a lavorare; per definizione, il parcheggio ideale è a 1 chilometro dal posto di lavoro, sempre che in tua assenza non ti gettino l’olio sul parabrezza i residenti gelosi.
E ti ritrovi naturalmente dietro all’artista che veleggia comodamente ai 30 all’ora verso non si sa quali lidi, e tu allora ti chiedi come quell’assessore possa concepire di portare sin qui il limite di velocità, e gli auguri di dover restare intrappolato nel traffico ai 30 all’ora come un insetto nell’ambra, mentre i mezzi pubblici sono assenti, gli asili e le scuole non fanno il tempo pieno e devi timbrare il cartellino per essere pagato, e se timbri in ritardo, uno due tre sei in sanzione, e ti saluto.
E scendi dalla macchina dopo aver fortunatamente parcheggiato – entro le 7 e 10, che se ti azzardi a fare le 7 e 14 col cazzo che trovi parcheggio – e fai trecento metri coi vestiti che si sono palesati in effetti troppo pesanti, e cominci a sudicchiare e d’improvviso ti viene il dubbio e torni indietro mentre l’impiegato che incroci al parcheggio ti apostrofa, “Fatta la notte?”, e la macchina è chiusa, sì e andiamo, ma forse solo la portiera di sinistra, e allora provi quella di destra, e dalla casa di fronte stanno già probabilmente segnalando un tossico che svuota le auto, e ti rimetti in strada verso il cartellino.
Questa non è una vita.
Questa vita è un ingranaggio che nello svolgimento della sua funzione, girare incastrato, si logora perfettamente da sé.
E’ come una fiaba Zen scritta da Fabio Volo: raggiungi la perferzione in quanto sei dimentico di te stesso, del tuo Io, ma il problema è che il tuo scopo non è che non sia puro, è che non lo vedi. Ti ondeggia davanti come i miraggi del caldo, sull’autostrada, e nel tentativo di restare in carreggiata ti dimentichi di quante azioni stai compiendo per guidare.
E tutto per tirare la busta paga, chino sulla scrivania, ci ritroviamo a quarant’anni spalle da poveri e pancia da ricchi per una esistenza occhialuta a dialogare col nulla, ivi compresi gli altri ingranaggi facenti funzione, che forse sono più felici perché apparentemente le priorità per loro sono evidenti: cibo / sesso / vacanze / borsetta / pausa caffè, non necessariamente in questo ordine.
Nel mentre, da qualche parte nella Valle degli Orti, Banderas sorseggia il suo caffè equo e solidale mentre aspetta che esca dal forno il pane impastato con le sue mani, mentre dalla finestra entrano tendaggi di luce verde dei campi e oro del grano, e pensa a te quell’attimo fugace mentre va di corpo riflettendo “Perché io valgo. Tu, no.”; e in quel preciso momento un drone americano impazzito per i troppi segnali radio sbaglia rotta come le balene e si spiaggia col suo carico di morte non già sulle catene montuose dell’Afghanistan ma, guidato da una Mano Invisibile che farebbe invidia ad Adam Smith nel momento dell’autoerotismo, centra perfettamente e in maniera molto Zen la ruota del’impeccabilmente candido Mulino Bianco inondando il soggiorno con tsunami di fuoco; ma Banderas non muore per l’esplosione, è troppo piccolo, e vien e sbalzato via dallo spostamento d’aria, e ti atterra ai piedi soffocando per il pane ai cinque cereali appena sfornato che gli è rimasto nella gola in cui ancora permane il caffè ecuadoregno equo e solidale raccolto da mani di infiniti stagisti turchi, e sputazzando e singultando ti chiede UCC – UCH – UCIDDI – MI.
E tu: NO.
L’unica cosa che ti salva dalla rovina non sono i pensieri circa le vacanze, che ti rendono ancora più schiavo (nessun giorno è orrendo come quello che precede le ferie), né la tua auto nuova, né il libro di Kellerman né la consapevolezza che Lipton per ogni ettaro di bosco non censito che spiana pianta ufficialmente ben 5 alberi, no.
Ti salvano solo i segnali di varia umanità che leggi al di fuori di questo nastro trasportatore.
Il collega col quale hai scambiato in vita si e no 50 parole. “Veh, posso farti una domanda? Personale? Poi a’t pòl anca mandérom a caghér”, io con questa premessa già esulto, di solito. Viene fuori che ha adottato dei bambini e si interrogava se anche io, che, sì, e scopri un lato che non conoscevi di persone il cui mandato è: fare il genitore, perché è un lavoro pesante e pieno di senso che va fatto bene.
Poi, il titolare dell’esercizio al pianterreno, che ti offre il caffè e guai a rifiutarlo, e ti parla delle esperienze coi ragazzi dell’OPG, e chissà se si potrebbe inventarci qualcosa?
Tema: dalla finestra del mio bagno, vedo…
Dalla finestra del bagno del piano vedo due comignoli color ardesia stagliati contro a un cielo azzurro, solcati da scie chimiche di dubbia remuneratività. E due piccioni affetti certamente da psittacosi, ben tenuti però, col petto gagliardo arruffato e lo sguardo ieratico rivolto uno di qua, e uno di là, che certamente meditano in maniera molto Zen sul perché dell’affannarsi a seminare, mietere, raccogliere in granai.
Perché è meglio una vita da uccello che un uccello di vita.
Morale: voglio fare l’artista e guidare ai 30 all’ora.
(PS: “Non l’ho mai fatto, ma l’ho sempre sognato”)
Io vorrei essere ricco per non guidare affatto :(…… Ma mi rendo conto che anche da estremamente povero potrei raggiungere lo stesso risultato, ehmmmmmmmm!
Il segreto è stare fuori città e lavorare fuori città. E sì, prima o poi mi farò una fattoria e ti inviterò a fare il pane ai 5 cerali, ma anche ai 5 isotopi, che posson sempre tornare utili! 😀
Il segreto è non lavorare affatto, comune ai molto ricchi o ai molto poveri 😀