E’ meglio strusciarsi che spegnersi lentamente.

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agosto 26, 2011 di carlovanni

Sapete che c’è quella piccola paranoia dei nostri tempi che sembra sempre che il cellulare ti squilla?

Forse per pura e semplice ansia, forse per voglia di protagonismo, o pura solitudine?

Ecco.

Mercoledì sera il maledetto cellulare era spento; anzi, morto:

non riconoscendo più la mano del padrone, il touch screen non mi ha più consentito l’accensione.

Il bastardo.

 

Eppure, la tasca vibrava in continuazione.

Ma non era il cellulare.

Era il basso del gruppo sul palco, fin dalla primissima nota.

 

Premetto che non sono mai stato un particolare fan del reggae, che mi fa l’effetto dei dolci con l’amaretto: un po’ è delizioso, tre pezzi di fila, o dieci minuti tutti insieme, mi scombussolano lo stomaco. D’accordo; a ciascuno i propri gusti, e fin qui, niente di opinabile (il che di solito porta a dover persino tollerare chi ascolta l’hip hop, e vabbè).

 

Forse però è che non l’avevo mai o quasi mai sentito come va sentito; e cioè dal vivo, in mezzo a un bel po’ di gente, e col volume di quelli che il vicino o trasloca o si unisce alla combriccola.

 

Per lo stesso motivo non avevo proprio idea di chi fosse Toots, ma l’occasione si presrtava particolarmente, e così mi sono unito alla combriccola pure io.

 

Adesso ho capito perché Keith Richards è da un bel pezzo che blatera di reggae e ritmi caraibici, anziché stare diligentemente sulle amichevoli pentatoniche del rock.

L’impatto della musica, quello che i più scafati sanno che potrebbero pure chiamare “il Groove”, ma si astengono dal farlo per evitare di sembrare quei segaioli che dissertano scientificamente di musica senza mai suonarla, è come prendere una secchiata d’acqua in faccia.

Ci saranno circa 500 persone, che hanno pagato pure il biglietto – e su questo ci torniamo subito – e ondeggiano e muovono il culo a ritmo coem non vedevo fare da un bel po’ di anni.

 

Solo dopo mi ritrovo a scoprire che Toots e i suoi Maytals sono una delle pagine più classiche del Reggae giamaicano, di quelli da libro di storia;

al momento, mi ritrovo solo a notare che quella che credo essere la cantante è in realtà semplicemente una delle tre coriste.

Ha aperto il concerto con una gola arrabbiata che ricorda quella della migliore Skin, senza i suoi lati peggiori e più deboli, e poi si è messa da parte, perché dopo una piccola arringa del bassista è entrato direttamente sul palco Toots, ed la pressione è salita.

Da sottolineare:

il tiepido pubblico emiliano alla fine del secondo brano, incitato dalla vocalist, era già lì che batteva le mani a ritmo.

Di solito, se va grassa, questo succede alla fine del concerto.

 

E vabbè.

Si va spesso di cover e di brani così classici che non sono in grado di dire se siano cover o roba loro; quando si tratta di radici, l’idea delle cover è una cazzata pura e semplice.

Sarebbe come dire che Riccardo Muti è diventato famoso eseguendo cover di famosi compositori. E senza nemmeno suonare una nota, per giunta.

 

Del resto, quello che ascolto non è cosa di cui mi possa fregare qualcosa.

L’importante è quello che sento.

E sento in questo mucchio di gente un odore di sesso che sembra di essere nella sala di preparazione di un kolossal porno.

Quello che vedo sui volti della gente – moltissimi giovani e giovanissimi, ma naturalmente, i matusa della musica, ovvero chi ricorda che esiste una vita al di là del fottuto dj set, sono accorsi come api al miele – è passione, trasporto, voglia di lasciarsi andare.

 

Quella roba che a un certo punto della festa blocchi la prima che ti capita nell’angolo e le infili la lingua in bocca – qualche volta arriva lo schiaffone, più spesso ti guarda come se fossi scemo e basta, lascia fare.

Esistono ancora questi tempi?

L’altra sera l’odore era quello.

Logico che siamo in un’area della sinistra giovanile;

il clima di fattanza, la percentuale di capelli incerati, di vestiti a strascicone, di tatuaggi e di birre ingollate (canne, ne vedo girare pochissime: che brutti tempi…pensare che è un concerto reggae…) è assolutamente inequivocabile.

 

Quello che colpisce però (e chi se ne frega della cifra politica, siamo seri) è la percentuale di giovani, per non parlare della gnocca, che oggi sei automaticamente costretto ad associare all’idea di “farsi un’ape” e reggere per sei ore lo stelo di un bicchieretto con dentro non so cosa, ingozzandosi di pane fritto e cubetti di mortadella.

 

Ferma un attimo.

Ma come, c’è ancora chi ascolta musica dal vivo?

 

E tra parentesi, non si tratta nemmeno degli ennesimi paraculi cloni di qualcosa di edulcorato che ancora si ostinano a chiamare rock, come ormai ce ne sono tanti, tanti tanti.

 

Sì, quella musichetta che sta al palco come l’aglio che non puzza, la menta che non pizzica, la birra senza alcool (ma pensa te) sta alle cose che hanno un senso e un sapore, per intenderci.

 

E non c’è bisogno di un qualche novello Lester Bangs capace di superare i trent’anni per rendersi conto che se dai alle persone il giusto ritmo e la giusta cornice, ancora queste sono capaci di sentire, magari non con le orecchie, ma con le budella, la differenza tra la fuffa dell’Olandese Moretto e la bòtta atroce e tremante dell’arabica.

 

Però il concetto era espresso chiaramente, ed è tuttora valido:

abbiamo (eh, no, momento: avete, o hanno) barattato tutto per la cultura del “cool”, del disimpegno, del volemose bbene ma senza far fatica, del mostrarsi incazzati finchè fa vendere i dischi (i libri, l’aglio), e adesso ci ritroviamo al 90% con precotti digeribilissimi, ma che non hanno consistenza, come le pasticche degli astronauti. No, precotti come quelli di Giovanni Rana e di Amadori no, a volte non sono digeribili manco per il cazzo, riconosciamolo.

 

E allora, io da bravo ingenuo sogno più situazioni in cui la gente si sbronzi moderatamente e si butti per terra in un groviglio accompagnata dal basso che batte.

 

Voglio dire:

perché tutti i concerti ora come ora sono seguiti dal dj set?

Per ballare?

Ma non potevi farlo prima?

Penso che un gruppo che suoni ti debba coinvolgere tanto da farti ondeggiare dall’inizio alla fine, e dopo, dovresti avere voglia di scopare, mica di ballare con un cocktail in mano

(dio mio, il tipo che la ragazza gli si strusciava addosso e lui stava rigido per non versare la birra: frigidi, siamo diventati una nazione di frigidi, maledetti).

 

Ma allora ci siete, che vi piace sbattervi davanti al palco e sentire la musica con l’ombelico e strusciarvi, e fare i cori?

E dove cazzo state nascosti tutto l’anno?

E cosa aspettate a prendere in mano una chitarra e vedere di tirare fuori i coglioni, mica 60 note al secondo?

Sì che ci siete.

E allora smettete di accodarvi ai paraculi e battete mica solo un colpo ogni tanto.

 

L’altra questione è come mai in tutta la Festa dell’Umidità (non mi risolverò mai a chiamarla “Festa del PD”, però è vero: farsi fare da cameriere da un segretario di partito è sempre bello) la programmazione ha previsto solo 2 ingressi a pagamento.

Uno per Toots.

L’altro, per Fabri Fibra.

 

Concesso, per Fabri Fibra:

i gusti eccetera, per quanto mi riguarda se mettevano il biglietto a 50 euro anziché a 25 facevano solo bene.

Voglio dire:

volete ascoltare quel tizio lì, allora siete amanti della sofferenza, tanto vale…(E non è mica l’unico per il quale si spenderebbero 50 euro di biglietto, eh).

Ma per Toots, perché?

E perché per gli altri no?

Ce lo siamo chiesti un po’ in tanti.

Perché è straniero?

Perché è negro?

C’è il dazio?

Non è UE?

C’è una logica che spinge solo i gruppi italiani, che non mi risulta costino poi meno?

La programmazione è stata fatta in braille, e senza volere hanno segnato pure la scheda sotto col punteruolo?

Boh.

Misteri della fede, politica e non, in una Festa che mai come quest’anno ha puntato sui ristoranti e che, tra crisi e caldo spettacolare, li sta vedendo disertati.

Con giustificato scorno dei sempre valorosissimi volontari.

 

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